L’articolo, con un taglio diacronico, ripercorre l’evoluzione del ruolo dell’intervento pubblico nelle città a partire dall’Unità d’Italia. Inizialmente questo ruolo fu secondario, in quanto nel primo periodo dell’Unità i maggiori sforzi finanziari furono concentrati nella realizzazione delle infrastrutture stradali e ferroviarie, nella bonifica delle paludi e nella costruzione dei borghi agricoli. Eppure i fondamenti dell’azione pubblica nel settore urbanistico furono gettati nel 1865 con la promulgazione di norme relative ai piani regolatori edilizi e ai piani di ampliamento, nell’ambito della legge n. 2359 sull’esproprio. una questione, quella dei limiti all’uso della proprietà privata, tutt’ora irrisolta e destinata a condizionare lo sviluppo delle città italiane negli anni che seguirono. L’azione pubblica nelle zone urbane si concentrò principalmente sulla questione abitativa, per sopperire al fabbisogno di case dovuto al forte inurbamento, a sua volta favorito dallo sviluppo industriale e dalla domanda di forza lavoro. L’autore distingue tre periodi di questo impegno pubblico nelle città. Il primo, all’inizio del Novecento, quando fu promulgata la legge Luzzati, che istituì l’edilizia economica e quando lo Stato intervenne direttamente sulla crescita dei canoni di locazione con il blocco dei fitti e con agevolazioni fiscali per chi realizzava nuovi alloggi. Nel secondo periodo, in coincidenza con il ventennio fascista, si affermò l’edilizia residenziale pubblica e lo Stato intervenne con appositi istituti per la costruzione di case popolari (INCIS e Icp ad esempio), che divennero 78 nel 1936. Tra il 1936 e il 1940 il 42 per cento delle risorse fu destinato alle case popolari e il 58 per cento all’edilizia statale. Il terzo momento si colloca nel secondo dopoguerra, con i due settennati dei piani INA casa e successivamente con gli interventi di cui alla legge 167/62, che consentiva ai Comuni l’esproprio di suoli da destinare all’edilizia residenziale pubblica, sovvenzionata, agevolata e convenzionata. I programmi di costruzione erano finanziati dallo stato tramite le Gescal (Gestione case dei lavoratori, 1963). Tra la fine degli anni Sessanta e la seconda metà degli anni Ottanta lo Stato raggiunge il suo massimo impegno nella realizzazione di alloggi da destinare ai ceti popolari e notevole furono anche gli investimenti economici in immobili da parte degli enti previdenziali e assicurativi. Determinanti secondo l’autore furono anche gli scioperi e le contestazioni di operai e studenti che portarono al riconoscimento del “diritto alla casa” con l’approvazione della legge 865/71, la “Legge sulla casa”, che segnò l’avvio di un consistente intervento pubblico con il “Piano decennale sulla casa” (legge 457/78) che si trascinò fino ai primi anni Novanta. Da allora, secondo l’autore, c’è stato un progressivo disimpegno dello Stato nella questione casa, sancito dalla riduzione dei trasferimenti alle Regioni per l’edilizia residenziale pubblica, dimezzati tra il 2002 e il 2004. Oggi l’impegno finanziario dello Stato per il sostegno alla casa è pari allo 0,1 per cento del Pil, il valore più basso tra i paesi dell’UE, in cui la media è lo 0,72 per cento